ACCADDE OGGI – 21 agosto 1964: Togliatti muore a Yalta

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view post Posted on 21/8/2019, 12:55
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Morì in vacanza, Palmiro Togliatti, esattamente 55 anni fa, il 21 agosto del 1964. L’allora segretario del Partito Comunista Italiano, di cui fu leader storico, si trovava a Yalta, città della Crimea (oggi Ucraina, all’epoca Unione sovietica), famosa per la conferenza che si tenne quasi 20 anni prima, sul finire della Seconda Guerra Mondiale (nel febbraio 1945), in occasione della quale i capi politici dei tre principali paesi Alleati presero decisioni molto importanti sul proseguimento del conflitto, sull’assetto futuro della Polonia, e soprattutto sull’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Yalta fu dunque un simbolo della rinascita dal conflitto mondiale e della divisione del mondo in due blocci: in Italia, dopo la lotta di liberazione e il sostegno degli americani, accompagnò l’inizio della Repubblica e il ripristino delle istituzioni democratiche. Il partito comunista, che Togliatti diresse già negli anni dell’avvento del regime fascista (dal 1927 al 1934, preceduto da Antonio Gramsci che poi fu incarcerato e morì nel 1937), fu una delle forze politiche più rappresentative in quel periodo e fu guidato proprio da Togliatti, ininterrottamente dal 1938 dopo una breve parentesi affidata a Ruggiero Grieco.
I funerali di Togliatti, che era nato a Genova nel 1893, furono oceanici, a testimonianza di un forte legame con l’elettorato, paragonabile con quello dimostrato molti anni dopo per l’ultimo saluto a un altro leader del PCI, Enrico Berlinguer.
Che Togliatti dovesse morire proprio in Unione sovietica era forse nel destino, visto il forte legame che soprattutto in quegli anni intercorreva tra i comunisti italiani e il regime di Mosca. Il leader, noto anche per le sue capacità di mediatore fra le varie anime del partito, era stato il rappresentante italiano all’interno del Comintern, l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti attiva dal 1919 al 1943. Per questo si meritò lo pseudonimo di «giurista del Comintern», attribuitogli da Lev Trotskij in persona, mentre successivamente Stalin gli offrì addirittura la carica di segretario generale del Cominform (il nuovo organo che sostituì il Comintern), nel 1951.

Togliatti però rifiutò, preferendo restare alla testa del partito in Italia e cominciando a nutrire dei dubbi sulla politica del leader sovietico, fatto che gli farà approvare in pieno la linea di Nikita Khruščëv al XX congresso del PCUS. A testimoniare il suo forte legame con la Russia (peraltro molto discusso, all’epoca) c’è anche un fatto curioso: in Russia esiste infatti una città a lui intitolata, chiamata Togliatti (in cirillico Тольятти) e in Italia nota erroneamente col nome di Togliattigrad. Fondata nel 1737 con il nome di Stavropol’-na-Volge, la città che oggi conta quasi un milione di abitanti fu cambiata appunto in Togliatti, immediatamente dopo la morte del politico italiano. In quel periodo vi venne anche costruito uno stabilimento produttivo della Fiat.

La storia di Togliatti è peraltro legata a quella del Lingotto: culturalmente si formò nella Torino dei primi decenni del ‘900, quando sorgevano le prime officine Fiat e il mondo operaio iniziava le sue battaglie.
Tornando alla politica italiana, dal 1944 al 1945 Togliatti ricoprì la carica di vicepresidente del Consiglio e dal 1945 al 1946 quella di ministro di Grazia e Giustizia – che fece approvare la famosa amnistia degli ex fascisti – nei governi che ressero l’Italia dopo la caduta del fascismo.
Membro dell’Assemblea Costituente, dopo le elezioni politiche del 1948 (anno in cui sopravvisse miracolosamente anche ad un attentato all’uscita da Montecitorio) guidò il partito all’opposizione rispetto ai vari governi che si succedettero sotto la guida della Democrazia Cristiana, proponendo la famosa “via italiana al socialismo”, cioè la realizzazione del progetto comunista tramite la democrazia, ripudiando l’uso della violenza e applicando la Costituzione italiana in ogni sua parte.
Togliatti dal 1948 fu sentimentalmente legato (tra mille polemiche, per il fatto che era già sposato e per l’austerità moralistica che all’epoca contraddistingueva il PCI) alla collega di partito Nilde Iotti, prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire alla fine degli anni ’70 una delle tre massime cariche dello Stato, la presidenza della Camera dei deputati.
Il 21 agosto di 55 anni fa se ne andò così una figura di spicco della storia politica italiana, una figura controversa (per i suoi rapporti con l’Urss) ma indiscutibilmente un leader di prima grandezza.
 
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view post Posted on 22/8/2019, 04:35
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CITAZIONE (almarebelde @ 22/8/2019, 05:35) 
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view post Posted on 10/6/2021, 13:42
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Togliatti aveva ,dopo la morte del compagno Giuseppe Stalin,preso posizione contro la politica di Kruscev nihilista ed antistorico!!Il giorno prima di partire per l'ultimo viaggio,d
Togliatti doveva incontrare il maledetto Nikita Krusciov e diglierne quattro!!!!!!!!Purtroppo,i successori di Togliatti ,furono un disastro ,riformista ,filonato e filodemocristiani(assurdo appoggio al governo Andreotti nel 1978):fino al criminale scioglimento del 1989....!!!!!!!
 
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view post Posted on 10/6/2021, 18:57
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CITAZIONE (Stefano Paltrinieri @ 10/6/2021, 14:42) 
Togliatti aveva ,dopo la morte del compagno Giuseppe Stalin,preso posizione contro la politica di Kruscev nihilista ed antistorico!!Il giorno prima di partire per l'ultimo viaggio,d
Togliatti doveva incontrare il maledetto Nikita Krusciov e diglierne quattro!!!!!!!!Purtroppo,i successori di Togliatti ,furono un disastro ,riformista ,filonato e filodemocristiani(assurdo appoggio al governo Andreotti nel 1978):fino al criminale scioglimento del 1989....!!!!!!!

Ciao Stefano Paltrinieri, quoto appieno il tuo pensiero <3 purtroppo in Italia difficilmente rinasceranno dei veri leder comunisti :(
 
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view post Posted on 9/1/2024, 14:06
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Piccolo Padre
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Il Migliore ha affossato il comunismo in Italia


Amedeo Curatoli



Nella stesura del presente articolo ci siamo serviti di un importante saggio, molto argomentato e documentato, di grande acume marxista leninista, composto nelgennaio 1980 dal compagno Salvatore Marseglia, prematuramente scomparso, saggio che pubblicheremo anche nella rubrica “documenti” del nostro sito.
Noi non siamo trotskisti, non diciamo che la rivoluzione “tradita” comincia dalla svolta di Salerno. E meno che mai a Yalta Stalin, Roosvelt e Churchill si spartirono ilmondo in sfere d’influenza per cui le sorti dell’Italia furono segnate da quella “spartizione”. Nelle Conferenze di Teheran (novembre 1943), Yalta (febbraio1945), Postdam (luglio 1945) si discusse prevalentemente del problema tedesco e si definirono alcuni aspetti dell’assetto provvisorio delle nazioni europee in attesa di poter realizzare il principio dell’autodecisione dei popoli e darsi il sistema sociale che più gli siconfaceva. Il testo dell’art. 5 del Comunicato Finale alla Conferenza di Yalta recitava tra l'altro: “Per creare le condizioni in cui i popoli liberati possono esercitare i loro diritti, i tre Governi (Usa, Gran Bretagna e Unione Sovietica ndr) ove necessario assisteranno incomune i popoli di ogni paese europeo già satellite dell’Asse 1) nell’attuare le condizioni di pace; 2) nell’attuare misure d’emergenza dirette a soccorrere la popolazione bisognosa; 3) nello stabilire autorità governative provvisorie in cui vengano largamente rappresentati tutti gli elementi democratici della popolazione e che si impegnino astabilire quanto prima possibile, attraverso libere elezioni, governi responsabili difronte alla volontà popolare".
Con queste Conferenze al vertice, per la parte che riguardava il futuro assetto dell’Europa, i rappresentanti sovietici imposero che si riconoscesse che avevano contribuito alla caduta del nazifascismo due forze in concorso tra loro: uno schieramento di Stati antifascisti e le forze della Resistenza che dovunque avevano trovato nei comunisti la componente più cospicua e attiva. E’ grazie a questo dato di fatto e al suo riconoscimento ufficiale che i partiti comunisti di tutta Europa, dalle condizioni di clandestinità in cui agivano prima della guerra, designarono di diritto i loro rappresentanti in tutti i governi provvisori e acquisirono quindi la possibilità di organizzare intorno a sé il consenso delle popolazioni per i loro programmi di ricostruzione e edificazione di Stati democratici popolari che marciassero verso il socialismo. Questa è la vera condizione favorevole che la vittoria bellica dell’Urss e la sua attività diplomatica creavano ai partiti comunisti dell’Europa: stava poi a questi servirsene in modo adeguato per accrescere continuamente la propria influenza fino alla conquista completa del potere statale. Quindi il radicato pregiudizio che le tre potenze vincitrici si fossero divise il pianeta è una radicata stupidità che non tiene neanche conto che la nuova, emergente potenza imperialista (Usa) passò,senza soluzione di continuità, dalla Seconda Guerra Mondiale alla Guerra Fredda. Infatti, appena 21 giorni dopo il vertice di Postdam (16 luglio ‘45), gli imperialisti d’oltreoceano sganciarono due bombe atomiche, una su Hiroshima e l’altra, dopo tre giorni, su Nagasaki, non certo per motivi militari, ma per terrorizzare l’Urss e per dire al mondo: "da oggi siamo noi i padroni dell’universo". Quindi il mondo non intendevano spartirselo con nessuno, lo volevano tutto per sé.

Le rivoluzioni del dopoguerra

E’ impensabile che in uno scontro gigantesco come la Seconda Guerra Mondiale l'assetto politico e sociale del mondo e i rapporti fra le classi non dovessero uscirne radicalmente mutati. Mao Zedong ha affermato che o la rivoluzione ferma la guerra, o la guerra da impulso alle rivoluzioni. La Seconda guerra mondiale ha confermato questo principio: nel dopoguerra, un gran numero di paesi si sono messi sulla via della rivoluzione socialista, e la stessa idea di comunismo si è profondamente radicata fra i popoli di tutto il mondo. Un partito comunista sa bene che nei periodi in cui si rompe la legalità e i poteri costituiti vacillano e gli apparati si sgretolano, è in questi momenti che risiedono le occasioni migliori per la lotta per il potere dello stato. I partiti comunisti della Terza Internazionale si sono ispirati a questo criterio, anche se non tutti hanno poi saputo raccogliere i frutti di quanto avevano seminato, o, per meglio dire, hanno lasciato deperire questi frutti oppure hanno consentito che fossero altri a raccoglierli. I partiti della Terza Internazionale diedero un contributo eccezionale alla vittoria sul nazifascismo stringendo legami profondi di stima, fiducia e simpatia con le masse popolari. Nel corso delle varie Resistenze questi partiti, da piccoli, clandestini, dispersi, perseguitati che erano, hanno raccolto gli elementi migliori espressi dalla lotta antifascista, sono cresciuti enormemente in numero e influenza ed hanno lottato perché, insieme alla barbarie nazifascista, si potesse farla finita con tutte le brutture e ingiustizie che secoli di storia avevano riservato alle classi oppresse. Per esempio in Romania, nel corso delle rivolte contadine incoraggiate e promosse dai comunisti, il partito comunista, da un manipolo di coraggiosi dirigenti rivoluzionari quale era a causa della spietata repressione fascista, si trasformò in un'organizzazione con decine di migliaia di aderenti, dotato di una sua milizia ed egemone nei sindacati operai, nelle istituzioni culturali, nelle associazioni di massa. E’ ciò che accadde anche al PCI che diventò un autentico partito popolare e raddoppiò esattamente i voti rispetto ai socialisti (6 milioni contro tre milioni!).
La linea generale dei comunisti consisteva nella lotta per la pace, contro il fascismo, per la liberazione nazionale. Ma le direttive della Terza Internazionale non erano assolutamente né di aspettare che la liberazione dei popoli venisse dagli eserciti alleati, né che la Resistenza popolare al nazifascismo dovesse essere un fatto spontaneo e disorganizzato senza precisi riferimenti politici, né soprattutto -ripetiamo- che il crollo nazifascista obbligasse ad un ritorno alle posizioni prebelliche. In un celebre discorso di Klement Gottwald (dicembre 1943) radiotrasmesso da Mosca e rivolto al popolo cecoslovacco egli diceva: "Quando scoccherà l’ora della resa dei conti e della cacciata degli invasori la nostra nazione non deve restarsene con le mani in mano, ma deve avere anche forze sufficienti per regolare questi conti, fin da ora, immediatamente. Senza esitazioni devono essere costituiti dovunque gruppi nazionali armati e reparti partigiani, fin d’ora è necessario passare all'offensiva...l’edificio nel quale vivremo noi e coloro che verranno dopo di noi dobbiamo costruirlo noi stessi". Dunque una volta abbattuto lo Stato fascista occorreva sostituirlo con uno stato di tipo nuovo (“l’edificio nel quale vivremo….dobbiamo costruirlo noi stessi”), quello che poi si chiamerà “lo Stato uscito dalla Resistenza”. Quali sono le caratteristiche di questo nuovo tipo di Stato? Evidentemente di contenere nelle sue istituzioni tutte le componenti che hanno dato vita alla Resistenza, in misura del contributo dato. All’indomani della disfatta del fascismo in molte nazioni d’Europa apparvero forme di questo tipo di Stato.
Ora, per fare una piccola digressione di carattere teorico, dobbiamo richiamare alla memoria che l’idea comunista sullo Stato è fondata sul presupposto che per rovesciare il dominio borghese occorre infrangere la macchina statale e sostituirla con un altro Stato espressione della nuova classe al potere. Ma quale forma concreta dovrà assumere il nuovo Stato, su quale tipo di istituzioni dovrà basarsi? Questo problema ha trovato risposte sempre più complete a mano a mano che le rivoluzioni socialiste si sono sviluppate ed hanno trionfato nel mondo, a partire dalla Comune di Parigi. Gli Stati usciti dalla Resistenza avevano contorni non nettamente definiti, nel cui seno coesistevano,disputandosi il potere, le classi vincitrici con rapporti di forza variabili in base a diversi fattori, non ultimi quelli internazionali. E’ logico quindi che chi tra i comunisti si poneva di questi problemi nel periodo della Resistenza era obbligato a rispondere alla domanda(di cui parla Lenin in Stato e Rivoluzione): “con che cosa sostituire la macchina statale spezzata. E se Marx e Lenin, senza cadere nell’utopia, aspettavano dall’esperienza di un movimento rivoluzionario di massa la risposta a questa questione, i comunisti della Terza Internazionale, da che cosa, se non dall’esperienza del movimento della Resistenza,dovevano attendere la risposta? Citiamo ancora Gottwald: “Una cosa è certa: bisognerà ricostruire da cima a fondo e su basi nuove l’intero apparato della pubblica amministrazione. Bisogna costruire i Comitati nazionali in tutti i comuni, in tutte le province e in tutti i territori, per ora (1944) come organi della lotta nazionale unitaria contro gli invasori e poi, dopo la liberazione, come organi democratici dell’amministrazione pubblica. Non si tratta di singoli impiegati, ma dell'apparato pubblico nel suo complesso, che bisogna mutare fin dalle fondamenta e sostituire con il sistema dei Comitati nazionali. I Comitati nazionali creeranno secondo la necessità la Guardia di Sicurezza nazionale, formandola con persone diprovati sentimenti nazionali, politicamente fidati e capaci”. Quindi i Comitati Nazionali (che in Italia si chiameranno Comitati di Liberazione Nazionale) configurano la risposta marxista al problema “con che cosa bisogna sostituire la macchina statale spezzata” nel nuovo Stato uscito dalla Resistenza. Questi Stati hanno avuto tutti una singolare natura: dotati in generale di istituzioni nuove espresse dalla lotta popolare, sono stati sede e strumento della continuazione della lotta delle classi ieri alleate contro il nazifascismo, ma venute allo scontro dopo la sua caduta; hanno perciò subito trasformazioni rapide ed imprevedibili, tanto più rapide con il radicalizzarsi della situazione internazionale. Un certo numero di questi Stati usciti dalla Resistenza, battute definitivamente le componenti borghesi, sono divenuti Stati democratico-popolari, altri,come quello italiano, dove la borghesia ha assunto progressivamente tutto il potere, si sono caratterizzati come Stati borghesi, strumento della dittatura borghese nella sua forma democratico-parlamentare.
Lo Stato italiano di oggi non ha nulla da spartire con lo Stato uscito dalla Resistenza. Il marxismo ha dimostrato che è possibile il dualismo di potere nell’apparato statale (come è avvenuto anche, per un certo periodo, nella Russia rivoluzionaria) cioè che più classi e partiti partecipino alla sua direzione, ma ciò solo in condizioni particolari e solo per un periodo limitato di tempo, in quanto è la dialettica inarrestabile della lotta di classe che risolve questo dualismo in un senso o nell’altro. La posizione revisionista (anche da parte degli attuali sostenitori del togliattismo), identifica lo Stato attuale italiano con lo Stato uscito dalla Resistenza perché nega la provvisorietà del dualismo di potere, o, peggio, nega il dualismo di potere nello Stato italiano negli anni che vanno dal 1944 al 1948, facendo propria la tipica visione interclassista della storia. Di converso, tutte le ricostruzioni storiche ultrasinistre presentano lo Stato italiano post-fascista come uno Stato borghese puro e semplice, fin dalla sua nascita, negando anch'esse il dualismo di potere e la lotta di classe che si svolgeva al suo interno. Si tratta di una rappresentazione specularmente simmetrica a quella che danno i revisionisti dello Stato.

I due punti di vista sullo Stato uscito dalla Resistenza

Gli organismi di lotta e di potere espressi dalla rivoluzione antifascista in Italia furono i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) e in secondo luogo i Consigli digestione nelle fabbriche. I CLN erano nati come patto di vertice tra cinque partiti: PCI, PSI, Partito d’Azione, la DC e i liberali. Il Comitato di Liberazione per l’Alta Italia (CLNAI) aveva nelle formazioni partigiane che operavano contro i nazifascisti il suo braccio armato. Il CLN centrale contribuiva alla formazione dei vari governi centrali, da Badoglio in poi. Nel CNL si delinearono ben presto divergenze sul modo di condurre la lotta e su quello che sarebbe dovuto essere il futuro di questi organismi a liberazione avvenuta. Liberali e democristiani li intendevano come organi transitori, da sciogliere non appena fossero venute a mancare le condizioni che li avevano determinati. Per comunisti, socialisti e azionisti, invece, questi organismi dovevano sopravvivere ed affermarsi come strumenti di un nuovo ordinamento politico-sociale. Scrive lo storico Carocci: "Gli Alleati prevedevano una graduale avanzata delle loro forze sorrette da un’azione di guerriglia dei partigiani ed invece trovarono ovunque le città del nord già liberate e amministrate dai CLN; talora, come a Milano, persino con i servizi pubblici tranviari inefficienza”.
Un’indimenticabile figura di martire antifascista fu Eugenio Curiel, giovane scienziato e studioso di marxismo leninismo, assassinato a Milano da una squadraccia fascista, alla vigilia della Liberazione, a soli 33 anni. Egli teorizzò una forma statuale transitoria che denominò “Democrazia progressiva”. “Ogni programma -scrisse Curiel- sarebbe una limitazione dell’importanza e della fecondità della democrazia progressiva la cui funzione è quella di garantire le condizioni politiche e sociali migliori all’opera della ricostruzione senza assegnare per questo un confine precostituito tra problemi della ricostruzione e problemi dell'edificazione della società socialista…dobbiamo lottare perché la democrazia progressiva si realizzi superando i limiti e gli ostacoli che le vorranno frapporre forze reazionarie, dobbiamo lottare perché la rottura si operi nelle condizioni a noi più favorevoli, quindi in condizioni tali che la rottura (cioè la rivoluzione socialista) venga ad essere la meno costosa possibile per la classe operaia e per tutta la nazione”. In effetti, Curiel, con la formulazione ed esplicitazione della Democrazia progressiva -fatta propria dal PCI al suo Quinto congresso- diede una sistemazione teorica convincente ed adeguata a ciò che stava già avvenendo di fatto sul campo di battaglia, vale a dire diede risposta al problema di come e che cosa sostituire all'apparato statale fascista. La Democrazia progressiva era intesa, nell’accezione rivoluzionaria di Curiel, come trasformazione istituzionale dello Stato, basandolo sui CNL. Uno Stato ditale genere avrebbe determinato il massimo di condizioni favorevoli per i comunisti per dirigerlo e per conquistarne a ondate successive l’egemonia, facendo leva sulle masse e imponendo via via alle altre forze politiche il confronto sui vari aspetti programmatici della ricostruzione e della democratizzazione.
In un rapporto alla Direzione del PCI (marzo 1945), Secchia affermò: “Prima, durante e dopo l’insurrezione, dovremo riuscire a coprire le nostre città e le nostre campagne di una rete di migliaia e migliaia di Comitati di liberazione, di fabbricato, di villaggio, di officina. Saranno questi gli organismi popolari su cui poggia il movimento insurrezionale, sui quali poggerà il governo democratico in Italia. Senza questi organismi, base del potere popolare, è vano parlare di democrazia progressiva”. Quanto al come distruggere l’apparato statale fascista, il quadro comunista dirigente del CLNAI aveva una chiara linea rivoluzionaria. Un esempio: il Presidente del Comitato toscano del CNL invia al dr. De Franciscis, vice podestà di Firenze, per impedirgli la sua attività di funzionario statale, la seguente lettera: “Siamo a conoscenza che la S.V. intende compilare regolare denunzia degli automezzi, gomme e parti di ricambio dei servizi pubblici della città di Firenze, per presentarla al Comando germanico. Tale fatto non è di assoluto gradimento di questo Comitato in quanto appaiono evidenti i danni rilevantissimi che ne verrebbe a subire la cittadinanza fiorentina. Vi preghiamo quindi gentilmente di voler rinunziare, sia voi che i vostri collaboratori, a tale atto, ritenendovi l’unico responsabile di quanto potrà accadere relativamente a quanto sopra espostovi. Crediamo inoltre opportuno di informarvi che qualora voi decidiate diversamente dai nostri desideri sarete passato senz'altro avviso per le armi”.
Sarebbe difficile trovare una citazione di Togliatti che rivela lo stesso modo di vedere i CLN di Curiel o di Secchia. “Noi desideriamo -disse in un discorso ai quadri della Federazione napoletana nel 1944- che al popolo italiano venga garantito nel modo più solenne che, liberato il paese, un’Assemblea nazionale costituente, eletta a suffragio universale libero, diretto e segreto, da tutti i cittadini, deciderà delle sorti del paese e della forma delle istituzioni. Questa posizione è democraticamente la più corretta”. Far decidere a tutti i cittadini delle sorti del paese e della forma delle sue istituzioni, dando ai cittadini ciò che il fascismo aveva abrogato, cioè il suffragio universale libero, diretto e segreto non è altro che l’obiettivo massimo della democrazia borghese. Prosegue Togliatti: “Ponendo alla base del nostro programma politico immediato la convocazione di un’Assemblea costituente dopo la guerra, ci troviamo in compagnia degli uomini migliori del nostro Risorgimento, in compagnia di Carlo Cattaneo, di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, e in questa compagnia ci stiamo bene”. In questo discorso Togliatti non si richiama al patrimonio storico del proletariato, ma proclama la continuità ideale fra la lotta antifascista delle masse popolari italiane nel dopoguerra e quella che è stata la prima esperienza storica di rilievo della borghesia italiana, il Risorgimento. Fa perdere sul campo, al proletariato, quanto gli aveva dato la possibilità di guadagnare l'Unione Sovietica nelle trattative con Usa e Gran Bretagna. Afferma Togliatti stesso, nel discorso in questione: “A proposito delle amministrazioni statali, nei sette punti approvati dai tre ministri degli esteri delle grandi potenze democratiche è detto esplicitamente che si devono creare in Italia degli organismi democratici di autogoverno”, ma attenzione, quando si tratta di definire questi organismi democratici Togliatti pensa al sistema prefascista senza i fascisti: “Sia fatto largo alle forze popolari nei comuni e nelle provincie. Si permetta loro di fare pulizia della corruzione fascista, di riprendere le nostre grandi tradizioni di autogoverno locale. Il nostro partito ritiene che…è oggi possibilissimo e conciliabile pensare alle elezioni dei consigli comunali per via democratica”. Uno dei cavalli di battaglia dei revisionisti, per dimostrare che un rinnovamento più ardito della struttura statale italiana avrebbe comportato la rottura dell’unità nazionale, era che al nord partigiano si contrapponeva un sud immaturo, facile preda della demagogia reazionaria e della chiesa. Ma se questo è vero (i risultati del referendum per cacciar via il re lo dimostrarono), a quale criterio marxista si ispirava Togliatti nel dire che “era possibilissimo e consigliabile (consigliabile!) pensare alle elezioni dei Consigli comunali per via democratica”? O il sud era maturo per capire scelte più avanzate sul piano di classe, e allora bisognava farle le elezioni, oppure non lo era e dunque ci si sarebbe dovuto dare strumenti di organizzazione e di lotta che non fossero i rottami della borghesia prefascista, per affrettare questa maturazione popolare prima di andare a consultazioni elettorali.
In un articolo dell’11 settembre apparso sull’Unità Togliatti esprime con precisione alcuni concetti sui CLN che lo differenziano nettamente da Secchia e Curiel: “…Che cosa è avvenuto a Firenze? Il Comitato di Liberazione a cui faceva capo il comando delle unità partigiane, ha avuto di fatto il potere nelle mani per alcuni giorni. Sopravvenute le truppe alleate il potere è passato a loro, come di diritto, il Comitato però ha assistito le autorità alleate in modo efficacissimo e intelligente. Il riconoscimento di una funzione dei Comitati di Liberazione accanto alle altre autorità di governo sarà dunque una necessità assoluta, quanto più ci si addentrerà nelle regioni dove il popolo ha veramente combattuto e duramente sofferto, e nella sofferenza e con la lotta sa di essersi conquistato il diritto di governarsi da sé, attraverso l’unità dei suoi grandi partiti politici. E sarà da considerare esiziale per le sorti del nostro paese ogni tentativo per fare ciò che qualcuno vorrebbe fare a Firenze, cioè liquidare il Comitato di Liberazione come organismo che è in qualche modo partecipe del potere. Quindi a che servono i CLN? Per dare assistenza, consiglio e aiuto allo Stato, per cedere il potere alle truppe alleate come è di diritto, secondo Togliatti, e non come impone purtroppo una dura contingenza, e per assisterle in modo efficacissimo e intelligente; per partecipare in qualche modo, non meglio precisato, al potere.
L’aspetto principale della storia del PCI dopo la Liberazione è che esso ha perduto la battaglia per la conquista esclusiva dello Stato, senza averla nemmeno mai ingaggiata. In tutti i momenti decisivi ha prevalso la visione togliattiana sullo Stato,secondo la quale esso poteva essere soltanto fascista o democratico, per cui, a liberazione avvenuta, gli obiettivi del movimento operaio diventavano sostanzialmente la stabilizzazione dello stato democratico eliminando tutti i residui e i focolai di rinascita del fascismo – e il compimento della rivoluzione democratico-borghese nel Mezzogiorno,tramite una riforma agraria che eliminasse il latifondo. Il colpo di Stato di De Gasperi,cioè la cacciata dei socialisti e comunisti dal governo, nel 1947, non modificò affatto questa analisi: essa comportò solo una fase di lotte per rientrare al governo, ma -ciò che più conta- di lotte condotte nel quadro istituzionale democratico-parlamentare e non finalizzato a modificarlo. La storia degli anni successivi dimostra che la borghesia italiana diventata nel 1948 arbitra assoluta del potere statale, lo usa con lo scopo manifesto non solo di piegare la classe operaia, ma anche di scompaginare e mettere fuori legge il suo principale partito, il Partito comunista. Gli episodi di repressione e provocazioni negli anni neri dello scelbismo sono innumerevoli. In questa situazione la politica del PCI consiste nella difesa del proprio diritto all’esistenza e nella difesa della legalità “democratica”. Si tratta di sopravvivere, di difendersi dai duri colpi della reazione: l’attacco concentrico della borghesia al Partito è un fattore che unifica tutte le componenti sul terreno immediato della difesa e che relega il discorso sulla presa del potere e, più in generale, sulle prospettive rivoluzionarie, nel campo dei principi, non delle scelte pratiche. L’unica polemica all’interno del PCI sulle prospettive rivoluzionarie ha un carattere implicito, è quella sulla struttura del Partito, clandestina e legale insieme,o solo legale: la prima presuppone -ma solo implicitamente- l’eventualità dell'insurrezione armata, la seconda la esclude categoricamente. Con il passare degli anni la mistica dell’unità ha sempre fatto sì che le divergenze si manifestassero in forme attutite, nascoste, ovattate, tali da non apparire mai come contrasti di principio, e le migliaia di militanti, che per passione comunista hanno speso le loro energie nell’impegno di appartenenti ad una cellula PCI, sottraendo il tempo libero ai figli, alle famiglie, dovevano far ricorso evidentemente al loro intuito per cercare di capire come orientarsi (quando ci riuscivano!) e dunque da che parte schierarsi. Questa doppiezza machiavellica ha sempre favorito, di volta in volta la leadership del partito. Nel PCI non si è mai visto un qualcosa che somigliasse, sia pure alla lontana,al grandioso dibattito -che ha coinvolto anche il movimento comunista mondiale svoltosi in Urss, durato quattro anni, fra la maggioranza bolscevica e Trotski, Zinoviev, Kamenev e successivamente Bucharin.

La svolta dell’VIII Congresso

Togliatti preparò la svolta antileninista dell’VIII congresso al modo suo, il più possibile indolore. Fu indetta una Quarta Conferenza Nazionale che decise l'allontanamento di ben il 30% dei dirigenti del partito sostituiti da altri funzionari e quadri politici. Chi sono costoro? Riportiamo la dichiarazione ufficiale: "Riguardo all’anzianità del partito, fra i delegati alla IV Conferenza Nazionale si nota, rispetto al VII Congresso, un’accresciuta partecipazione di elementi entrati nel partito dopo il 25 aprile 1945”. Le conclusioni politiche anticiparono l’VIII Congresso e, riguardo agli anziani,furono allontanati dai vertici gran parte dei dirigenti formatisi nel fuoco della lotta e sostituiti con gli arrivati dopo il 25 aprile. A quattro giorni dalla chiusura della Conferenza si formò una nuova segreteria dalla quale fu escluso il più prestigioso rappresentante della sinistra del partito: Pietro Secchia. Dall’VIII Congresso in poi lo “Stato uscito dalla Resistenza” diventa l’attuale Stato borghese italiano e il programma massimo del PCI -fino al suo miserabile scioglimento- è stato la salvaguardia di questoStato. Quel Congresso sanzionò ufficialmente e irreversibilmente la svolta revisionista kruscioviana del PCI, anzi Togliatti, insigne giurista mancato, intese, per così dire,strappare dalle mani del rozzo colcosiano Krusciov lo scettro di primo revisionista del socialismo contemporaneo. “Noi comunisti italiani -scrisse- siamo stati quel settore che ha dato un maggior contributo alla progressiva elaborazione di queste posizioni nuove (quelle uscite dal XX Congresso del PCUS). “Il XX Congresso ha constatato che oggi il socialismo non è più limitato ad uno Stato ma è diventato un sistema mondiale di Stati. Da queste constatazioni sono derivate parecchie conseguenze che riguardano il nostro orientamento politico generale, la nostra strategia, la nostra tattica. Prima grande conseguenza è la evitabilità della guerra. Il XX Congresso ha ricavato anche la conseguenza che la marcia verso il socialismo prende aspetti diversi da quelli che ha avuto nel passato: non è più indispensabile la via dell'insurrezione armata come si dovette fare in Russia nel 1917; è possibile giungere ad attuazioni socialiste seguendo l’utilizzazione del Parlamento”. Quindi le guerre sono evitabili e al socialismo non si arriva più per via insurrezionale ma con tutta comodità, utilizzando il Parlamento. Ma che meraviglia! Sono passati da allora 56 anni, ci aggiriamo inorriditi fra le macerie politiche, ideologiche, culturali e morali di ciò che resta del pinocchiesco Paese dei Balocchi prospettatoci dal Migliore (in concorso con il criminale colcosiano trotskista del XX Congresso), e scorgiamo fra queste macerie soltanto figure losche, di ambedue i sessi. Ci chiediamo: è lecito ridere, dopo 56 anni, della via italiana al socialismo?
 
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5 replies since 21/8/2019, 12:55   68 views
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